venerdì 23 settembre 2011

CHE TEMPO FA ?


Che il clima fosse divenuto bizzarro era ormai considerato un fatto acquisito ed un po’ tutti ci si era adeguati abbigliandosi in modo consono a prevedere, almeno in parte, tutte le sue possibili e repentine mutazioni.
La cosa però che lasciava sconcertati era l’effetto che questo scombinamento continuo poteva avere sul comportamento delle persone, che in alcuni casi raggiungeva il paradosso.
In particolare un individuo trascorreva intere giornate nel percorrere il breve tragitto che separava il suo appartamento, collocato nei primi piani di un condominio, dal portone del palazzo.
Da questo arrivava appena ad affacciarsi ed alle persone che transitavano sulla strada poneva sempre il medesimo quesito.
A seconda della risposta che ne otteneva, valutava rapidamente se gli indumenti che aveva indosso erano appropriati e, se non lo erano, rientrava immediatamente per cambiarli.
Poiché il tempo era più mutevole di lui, come le risposte che gli venivano restituite, anche nel giro di pochi attimi, non riusciva mai a trovarsi in sintonia e non faceva altro che ritornare sui propri passi.
Non era mai convinto delle frasi che gli venivano dette e richiedeva conferma a più persone, non trovandola affatto.

E LA LUCE ?


Le giornate autunnali di inizio dicembre erano molto brevi e già alle sedici e trenta il sole smetteva di illuminare e si nascondeva oltre l’orizzonte, lasciando che le ombre si allungassero ovunque, inghiottendo le strade e le persone che vi si trovavano a transitare.
Per fortuna già ai primi segni dell’imbrunire, le lampadine poste in cima ai lampioni si accendevano e con la loro luce rischiaravano dalle tenebre, consentendo ai passanti di vedere lungo il percorso che facevano.
Era consuetudine che tutto ciò si verificasse e nessuno più badava a preoccuparsene.
Un pomeriggio tardi, però, le lampadine non si accesero e le strade piombarono in un buio completo.
Solo il provenire delle macchine con i loro fanali accesi consentiva alle persone che si trovavano per strada di vedere dove mettevano i loro piedi.
Ognuno camminava stretto nei suoi indumenti, un po’ per il freddo che faceva ed un po’ per la paura che provava nel trovarsi a camminare circondato da tante tenebre.
Una strada in particolare non era molto trafficata ed aveva dei marciapiedi comodi, file di alberi lungo i due lati e facciate di palazzi dense di sculture ed aggetti che al buio assumevano un aspetto sinistro. Per giunta, in un punto vi era una rientranza in cui si sarebbe potuto acquattare qualcuno senza essere visto e balzare fuori all’improvviso.
Le poche persone che vi transitavano quella sera lo facevano per necessità e se avessero potuto scegliere, ne avrebbero fatto volentieri a meno.
In tutte le altre sere nessuno si era preoccupato di quella rientranza, questa volta però che si trovava ad avvicinarsi veniva improvvisamente raggiunto da una voce imperiosa che lo faceva sobbalzare con una domanda apparentemente banale.
All’istinto di voltarsi verso di essa, non riconoscendo nulla in quel buio scuro che la caratterizzava, non sapendo farfugliare che risposte di circostanza, ma del tutto inadatte, seguiva prepotente il desiderio di accelerare il passo e lo si metteva rapidamente in pratica, conservando di quell’inusuale esperienza solo un istintivo e profondo timore.
Il medesimo comportamento ripetuto per tutta quella sera lasciava quella voce senza una risposta adeguata, nonostante il reiterarsi della identica domanda alle più disparate persone.

La sera dopo, fortunatamente illuminata dalle solite lampadine, alcuni di quei passanti sono ritornati su quella strada ed avvicinatisi a quella rientranza, curiosi di scoprire la fonte di quella voce che li aveva turbati la sera prima, non vi trovavano nessuna persona, né alcuna traccia di una sua presenza in quel punto.
Delusi per non aver trovato soddisfazione a tutti gli interrogativi  che in seguito a quell’inatteso incontro si erano suscitati nei loro animi, erano in procinto di tornare sui loro passi quando, voltandosi ancora intorno, proprio guardando verso l’angolo più nascosto della rientranza, notavano un minuscolo disegno raffigurante una piccola lampadina ad incandescenza ed una scritta in caratteri microscopici. Avvicinatisi per leggerla si sorprendevano delle parole che vi trovavano impresse: “ La Luce che vi eravate persa e di cui sentivate molto la mancanza era la stessa che abitualmente sprecavate senza preoccuparvene. Vi ho solo voluto fare un piccolo scherzo per farvi provare come ci si può sentire senza averne più. Non me ne vogliate. Un amico. “
“P.S. : Prendetevene cura!”


CHI SEI ?


La vita frenetica vissuta ai ritmi odierni conduce sovente le persone a dimenticare le cose fondamentali del proprio vivere e indirizza le loro esistenze ad appiattirsi sulla ripetizione degli stessi gesti secondo orari standardizzati ed abitudini reiterate.
Spesso in tutto questo ci si dimentica di sentire il proprio animo e ci si limita ad essere il lavoro che si fa o la vita che si conduce, rinunciando a capire il senso profondo del proprio esistere.
Tempo fa, quando le macchine non avevano ancora preso il sopravvento sulle persone ed ancora in molti camminavano a piedi, vi era una maggiore facilità nell’incontrarsi, ed a volte, anche nel parlare, trovando piacevole il discorrere senza che nessuno avesse da ridire.
In quel tempo a volte ci si poteva imbattere in uno strano tipo che si fermava apposta nei punti di maggior transito col suo strano abbigliamento ed all’improvviso apostrofava le persone che gli passavano davanti con la stessa domanda formulata quasi a bruciapelo sulle facce di queste.
Molti non arrivavano a capire a chi era rivolta quella domanda improvvisa e, pensando di essere capitati nel bel mezzo di un dialogo tra altre persone, proseguivano senza nemmeno rispondere.
Alcuni avevano il dubbio di essere i destinatari di quel bizzarro quesito, ma, un po’ per la distrazione dei pensieri che avevano per la testa, un po’ perché non sapevano cosa rispondere, sorridevano in segno di saluto e, senza proferir parola, proseguivano senza fermarsi la loro strada.
In pochi si accorgevano di essere interrogati e farfugliavano una qualche risposta costituita da una somma di parole, però lungi dall’essere soddisfacente.
Uno, invece, rispondeva quasi come se la risposta l’aveva preparata da tempo e aspettava che qualcuno gliela chiedesse: “Non lo so, ma sto girando per scoprirlo. Può darsi che prima o poi lo scopro. Come mai me lo chiedi?”
E l’altro , per nulla sorpreso dalla risposta, rispondeva: “ Mi sono fermato a riprendere fiato, perché è un cammino tortuoso, ma sono pronto a proseguire!”.

HAI STOFFA ?


La domanda posta a bruciapelo a chi non se l’aspettava aveva l’effetto di raccogliere solo risposte vaghe e prive di rapporti con le reali intenzioni dell’interlocutore. Questi con in mano un gessetto ed un metro da sarto, che gli scendeva sul petto dalle spalle dell’abito elegante che aveva indosso, aspettava una risposta, sembrava impaziente, anche se non lo voleva dare a vedere.
Dietro di lui era un tavolino su cui si notavano delle grandi forbici e dei rocchetti di vari fili colorati riposti in una scatola aperta. Degli aghi sicuramente erano da qualche parte: altrimenti come poteva cucire?
Quello che sicuramente non si vedeva era proprio la stoffa che doveva essere cucita.
Per questo motivo poneva in continuazione la stessa domanda alle persone che gli passavano vicino.
A quell’ora della mattina, però, tutti quelli che transitavano, intenti ad andare o al lavoro, o a scuola, o a fare qualche commissione, di stoffa tra le mani non se ne trovavano, se non quella dei vestiti già cuciti che avevano indosso, ma come facevano a dargliela?

Ci poteva essere forse un’altra spiegazione, anche se poteva certamente sembrare assurda. La stoffa che quello strano sarto chiedeva non era quella con cui ci si avvolgeva indosso per rivestirsi, ma quella che ognuno aveva in sé, chiusa all’interno del proprio animo e che spesso non si sapeva di avere.
Egli quindi non era lì per confezionare vestiti ma per aiutare a ricucire gli strappi che questa umanità presentava con sempre maggiori lacerazioni.
Restavano solo congetture: nessuno si fermava ed il sarto, stanco di chiedere invano, sbaraccava quello strano tavolino e, così come era venuto, spariva.

E LA PRECEDENZA ?


Le strade erano tracciate con strani segni a terra, dipinti tempo prima con vernici bianche ed ora in parte scoloriti. Vi erano anche dei cartelli metallici sorretti da pali ad una certa altezza, in modo da essere visibili anche da lontano.
Ve ne erano anche altri, ben più grandi, che distoglievano gli sguardi con immagini accattivanti. Reclamizzavano prodotti con la scusa di mostrare spesso modelle dalle fattezze apparentemente disponibili.
Naturalmente le strade erano dense di automobilisti rinchiusi nelle loro scatolette di plastica e latta, sollevate da ruote di gomma ripiene di aria che rotolavano tutti i giorni avanti e indietro.
Le strade spesso s’intersecavano tra loro ed in corrispondenza di queste intersezioni si assiepavano la maggior parte dei cartelli.
Il significato degli strani segni che vi erano impressi era però quasi del tutto scomparso dai ricordi degli automobilisti, che spesso avevano problemi nel dialogo tra loro agli incroci in cui a volte si scontravano o rischiavano di farlo e non comunicavano se non con strani gesti ed oscure parole con linguaggi spesso scurrili.
In quelli più pericolosi vi si trovavano dei pali colorati di giallo con delle strane teste allungate, di colore verde scuro, con tre occhi colorati che si illuminavano in momenti e con colori diversi. Il più grosso di questi era collocato più in alto e quando si accendeva irradiava una luce rossa che veniva vista anche da lontano e serviva ad avvisare chi sopraggiungeva da lontano che si doveva fermare. Gli altri due erano di diametro identico, quello più in basso era verde e, quando si accendeva, consentiva alle macchine ferme di ripartire e di attraversare l’incrocio, mentre al centro era di colore giallo ed avvisava chi si stava avvicinando che era quasi il turno delle macchine ferme sull’altra strada di oltrepassare l’incrocio. I nomi di questi pali erano semafori e si erano diffusi in molti incroci nella speranza che facessero diminuire gli incidenti. Loro ce la mettevano tutta e con regolarità prestabilita alternavano il transito delle macchine delle diverse strade agli incroci. Ma spesso i loro annunci restavano inascoltati e a volte, scoraggiati da tanta indisciplina, si guastavano, rinunciando ad emettere le tre luci e lampeggiavano le medesime luci arancioni.
A volte agli incroci si collocavano delle persone in divisa che vigilavano sulla correttezza degli automobilisti e su taccuini appositi annotavano le targhe degli indisciplinati.
Erano stati scritti molti codici con belle regole da rispettare, ma, chiusi nelle loro macchine, gli automobilisti viaggiavano sempre in compagnia della fretta e le strade, che fossero asfaltate di fresco o ricolme di buche o tappezzate di rattoppi, nonostante i tanti nomi che le distinguevano, sui cigli  mostravano lapidi che a stento trattenevano le foto delle molte persone che in qualche punto del loro continuo scorrere vi erano morte.
Quello di cui veramente sembrava essersi persa traccia era il significato stesso della precedenza.
Solo un vecchio, davanti a delle scolorate strisce pedonali, con un bastone in mano, per sostenersi dal peso degli anni che si portava sulle spalle e che gli si vedevano bene indosso, indeciso se lanciarsi nell’attraversamento, se lo chiedeva a mezza voce che quasi non gli si sentiva la domanda, mentre le macchine gli sfrecciavano davanti che quasi lo volevano già investire prima ancora che entrava nella strada.